Nel suo taglio pseudo-autobiografico (una “storia quasi vera”, avverte la copertina) “Qualcosa di scritto” gioca sul confine tra il romanzo e il saggio critico. Ma pochi saggi riescono a essere penetranti come questo libro, che unisce alla più raffinata erudizione un’intensa carica umana.
Ed è un’umanità viscerale, quasi espressionistica, quella che emerge dalle due figure principali del romanzo: in primo luogo l’assente, “il fantasma di P.P.P.”, che aleggia sulle strade romane come una presenza scomoda quanto necessaria; e poi lei, Laura Betti, la storica “amica” di Pier Paolo Pasolini, che come un vortice avvolge su di sé ogni pagina in cui compare. “La Pazza”, traccia vivente di un incontro “che non saprei definire meglio che catastrofico”, isterica rivelazione di qualcosa che le pagine di un libro non possono contenere, e che deve necessariamente passare attraverso il contatto umano, nella forma del contagio.
Perché obiettivo finale del romanzo è la ricostruzione di un “momento basilare”, matrice su cui si struttura la grande opera incompiuta di Pier Paolo Pasolini, il romanzo-poema “Petrolio”. Con “Qualcosa di scritto”, Emanuele Trevi ha tentato di porre luce sul concetto di “iniziazione”, un concetto che in Pasolini si carica di attributi misterici così radicati da renderne impossibile la semplice identificazione, lasciando libero spazio alle interpretazioni più degradanti. L’incontro con “la Pazza”, la lunga sopportazione delle più sadiche angherie, assume così la stessa funzione che in “Petrolio” hanno le mutazioni fisiche e sessuali dei protagonisti: ricostruire qualcosa che “non si può insegnare, perché l’insegnamento è basato sull’ascolto, colpisce l’udito, mentre l’iniziazione agisce direttamente sulla mente, non lascia un insegnamento ma «un’impronta»” (p. 221). Questa ricerca erudita si raffina poi nel finale ritorno in Grecia, impostando un’ermeneutica che – in perfetto stile pasoliniano – “non cita, ma incarna, collauda, sperimenta” (p. 193).
La prosa con cui Trevi racconta questo percorso storico e viscerale è quella dello scrittore consumato, ormai sicuro dei propri mezzi, ma anche dotato di un naturale talento per l’affabulazione. Concedendosi assai di rado il lusso dell’accapo, abbandonandosi volentieri a lunghe divagazioni, la sua voce non annoia mai, stringe con destrezza le redini dell’attenzione, toccando in breve tutte le modulazioni (dal critico al riflessivo, dal poetico al volgare, con balzi repentini e mai del tutto prevedibili). E giusto per non fare dello stile un vezzo, la struttura monolitica dei primi capitoli si sfalda gradualmente nel finale, sfiorando le regioni della poesia. A seguire, un apparato di note e perfino una bibliografia ma non in forma accademica: l’appendice ci racconta altre storie, invitando spesso al riso e all’ironia.
Un libro di sicuro valore, forse non di così facile fruizione, ma che ci offre il suo ricco bagaglio di conoscenza in tratti vivi e coinvolgenti. Potrà essere lamentata una certa inconsistenza nella trama, che non trascina né cattura il lettore, ma già dalle prime pagine era stata dichiarata la totale estraneità a certe pratiche dell’intrattenimento – rappresentate dalla figura “luciferina” dell’editor, il cui compito è “trasformare tutta la letteratura in narrativa”, e soprattutto “rendere omogenei lo scrittore e il suo lettore” (pp. 20-21).
Pasolini non voleva nulla di tutto ciò, e forse nemmeno noi dovremmo accettarlo tanto felicemente. La letteratura, al di là di quanto piacevole o “vendibile”, resta in primo luogo “qualcosa di scritto”, e compito dello scrittore autentico sarà quello non esaurirne il mistero.

“Qualcosa di scritto” di Emanuele Trevi
edito da Ponte alle Grazie
pp. 247  –  euro 16.80