Cominciamo con la storia, con cosa racconta.
New York.
C’è un ex-professore quasi sessantenne, obeso come riescono a essere obesi solo da quelle parti (Non ho modo di sapere esattamente quanto peso, ma credo sia tra i duecentoventi e i duecentosettanta chili), che non esce di casa dal 2001. Si chiama Arthur Opp. Ordina montagne di cibo via internet, trascorre le giornate davanti alla tv, butta la spazzatura di notte, dalla finestra, per non farsi vedere. La sua casa è un cesso di avanzi di cibo e riviste, o almeno così è al piano terra. I due piani superiori, dove ci sono le camere, non si sa in che stato siano perché Arthur non è più in grado di andarci. Inutile dire che è solo, vero? L’unico contatto con la vita sono le lettere che si scambia con un’ex-studentessa, Charlene.
C’è un ragazzino, una promessa del baseball, un ragazzino dei quartieri poveri che nonostante la sua condizione va a scuola con i ricchi perché sua madre, alcolizzata, disoccupata, depressa, vuole per lui una vita migliore. Sua madre è Charlene, la stessa che vent’anni prima andava a lezione da Athur Opp.
Due vite, quella di Arthur e quella del ragazzino, che viaggiano ignare l’una dell’altra finché…
E ora il come: come questa storia è raccontata.
Immaginatevi alla finestra. State stendendo il bucato, è una giornata ventosa e i vestiti si asciugheranno in un niente. A questo pensate, ai vestiti asciutti, mentre una molletta cade a terra. Vi chinate a raccoglierla e quando vi tirate su, chissà perché, non badate alla finestra aperta. E prendete in pieno lo spigolo di alluminio, nel centro della testa.
Ecco: quel dolore lì, così violento, così inatteso, vi colpirà di continuo per tutte le trecentocinquantadue pagine.
Così. “Era Charlene Turner. Non credevo che avrei mai più sentito la sua voce in vita mia ma Dio come ne sono stato felice. Ero lì lì per lanciare un grido ma mi sono costretto a tacere. Mi sono messo una mano sulla bocca e mi sono morso il palmo“.
E così. “E poi questa mattina, visto che non avevo nient’altro da fare, mi sono seduto a scriverle la lettera che ho continuato a ripetermi nella testa, la lettera che dice la verità, l’ammissione taumaturgica dei miei segreti più oscuri, la lettera che sapevo avrei dovuto spedirle se ci fossimo incontrati di nuovo. La lettera che le avrei inviato in quel momento se non mi fossi comportato come un gran vigliacco. Il vigliacco che in realtà sono“.
Insomma ci siamo capiti: fa un male cane. Eppure non è una storia disperante. Quando finalmente arrivi in fondo all’ultima pagina (ed è il caso di dirlo, finalmente, perché quando ci arrivi quel peso lì non lo sopporti più), prendi un respiro, il più profondo che i tuoi polmoni siano in grado di reggere, e resti un attimo appeso, gli occhi chiusi.
Espiri piano, e a lungo.
Quando riapri gli occhi, sorridi.
Senza peso.

“Il peso” di Liz Moore

edito da Neri Pozza

pp. 133  –  euro 13

Recensione di Valentina Morelli