Il bambino indaco marco franzoso einaudi“Eccolo, il nostro bambino, un puntino azzurro, indaco per la precisione”. Isabel e Carlo, una giovane coppia, una convivenza serena, una quotidianità arricchita da giornate magiche trascorse su un tatami, inebriata da fragranze orientali, il resto del mondo chiuso fuori, loro due su una terrazza da cui “godersi il panorama, mentre l’aria soffiava sulla faccia, tenace, carezzevole, come tentando di infiammare una brace”; una terrazza che assume valenza simbolica, un affacciarsi alla vita con la l’invincibilità e la solarità della giovinezza. Una felicità assoluta intaccabile; eppure qualcosa si insinua nella mente della donna, cresce insieme al feto, bambino indaco ancor prima di nascere. La convinzione di aver concepito un “messaggero e creatore di una nuova era”, con “notevoli attributi psicologico-spirituali” e con “un istinto comportamentale rivoluzionario”,  la delirante certezza di una madre che aspira asceticamente alla perfezione, vanno a incrinare la stabilità di coppia – “amavo ogni giorno di più la donna che avevo al mio fianco e al tempo stesso percepivo aprirsi tra noi infinite finissime crepe” – a turbare l’equilibrio dell’uomo, gettandolo nel vortice delle infinite domande senza risposta, nel silenzio che sembra accompagnare la rassegnazione. Il bambino nasce e non cresce, poiché viene nutrito dalla madre seguendo uno “svezzamento rigorosamente naturale, biodinamico, vegano, crudista”. Innanzi al dramma che gli si prospetta, ovvero la probabile morte del figlio, Carlo sceglie di assecondare l’instabilità della moglie-madre perfetta e di agire con l’aiuto della madre-nonna perfetta. Emblema della maternità equilibrata, protettiva e rassicurante, la nonna gioca un ruolo centrale nel romanzo, in quanto è artefice della tragedia finale che è poi l’incipit della storia stessa: Carlo è inerme innanzi alla scena terrificante di sua moglie che giace a terra, il corpo crivellato di colpi, schizzi di sangue ovunque. Nella stanza accanto si trova appunto sua madre, assassina per il bene di suo figlio e del piccolo Pietro. E il racconto prosegue alternando questi momenti di lucida, scarna e distaccata descrizione della scena del crimine ai momenti topici della storia d’amore fra l’io narrante e Isabel, la magia dell’innamoramento, la gioia dell’attesa; le idee sempre più radicate di purificazione del corpo e dello spirito di Isabel, la frattura dell’armonia familiare, il senso di inadeguatezza. E poi la nascita di Pietro, la presa di coscienza che qualcosa dev’essere fatto per fermare la follia della donna, per far crescere il bambino sano; la stanchezza fisica e mentale di un uomo disperato, il conforto della sua famiglia, l’aiuto di sua madre, risolutivo e, in parte, liberatorio.
È un romanzo intenso, “Il bambino indaco”, e in costante tensione, sospeso fra desiderio di purezza assoluta, quella sfrenatamente vissuta da Isabel, e desiderio di una vita normale, che segua con naturalezza il suo corso. Costruita su vertigini e muri d’incomunicabilità in opposizione al dichiarato bisogno di autostima e fiducia, la storia si avvale di flashback inerenti la scena macchiata di sangue che diventano essi stessi schizzi narrativi irrompenti sullo scorrere del racconto, che riportano l’io narrante – e il lettore stesso – ad una realtà cruda, violenta, ad “un tutto compresso in un istante”.
“Da quel momento la mia vita è un indistinto fluire di eventi” afferma l’io, dando vita ad un flusso narrativo ricco di monologhi interiori, sensazioni ed emozioni che non conoscono barriere,“bisogna lasciarli scorrere, i pensieri, come se non ci appartenessero. Lasciarli fluire in modo da attenuarne la spinta distruttiva. Le dighe sono pericolose”.
Una lettura conflittuale, febbrile; viene quasi da giudicare, da mettersi dalla parte del protagonista, districarlo dalla sua perplessità, aiutarlo a fronteggiare il senso di disagio, di disperazione, sollevarlo da quella condizione di “non sentirsi all’altezza” citata più volte nel testo. Impossibile farlo; ed è proprio l’io narrante a vietarlo, ad impedirlo al lettore. La scrittura stessa diviene strumento a difesa di un ricordo che, sebbene lo si voglia sprofondato “nella sabbia della memoria”, rimarrà preservato, vivo. Vivo come il piccolo che alla fine ce la farà e insieme a suo padre dalla terrazza, luogo di contemplazione imperturbabile della vita e al tempo stesso di vertigine e smarrimento, potrà serenamente salutare sua madre in cielo.

“Il bambino indaco” di Marco Franzoso

edito da Einaudi

pp. 132  –  euro 16

Recensione di Alessia De Marchi